Un pover uomo, sul marciapiede di fronte a dove mi trovo in attesa dell'autobus, per avere una indicazione ha dovuto aspettare, non senza una certa espressione di incredulità sul volto, la terza persona a cui si è rivolto.
Una signora di una certa età ha fatto finta di non vederlo, probabilmente doveva correre a casa, magari ad insegnare ai nipoti in quale punto esatto ci si scambia il segno della pace durante la messa.
Lo studente che è passato subito dopo lo ha scanzato come la peste, troppo preso forse a programmare il suo futuro luminoso in un paese straniero, dove sarà lui con tutta probabilità ad essere guardato con sospetto.
Infine è venuto il turno di una ragazza impegnata con gli auricolari in una conversazione telefonica, la meno adatta in apparenza a cui chiedere attenzione, ma lei si è sfilata le cuffie, ha ascoltato la domanda e dato gentilmente e sorridendo l'indicazione.
Per precisione l'uomo in questione, ben pettinato e ben rasato, era un tipo distinto che indossava una camicia chiara su dei pantaloni blu di ottimo taglio e con delle scarpe belle ed eleganti.
Qui non si tratta di aver paura dell'uomo nero, ma del prossimo in generale.
Andiamo di fretta e non abbiamo neanche il tempo di vedere gli altri, di ascoltarli, figuriamoci se si tratta di sconosciuti. Siamo completamente presi da noi stessi e senza il minimo interesse per l'altro, a meno che non rientri nella cerchia di nostro e per nostro interesse.
Ci affiliamo a grandi cause con il minimo impegno di un temporaneo cambio di profilo, dimenticandoci che il mondo la fuori è il riflesso del nostro selfie più riuscito.
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