About me

Questo spazio nasce con l'intenzione di condividere due mie grandi passioni: leggere e scrivere.
Qui troverete le recensioni dei libri che il destino mette sul mio cammino, quelli che scelgo per istinto in libreria o che mi sono stati consigliati.
Che siano classici o novità non ha importanza, l'importante è mantenere vivo l'amore per la lettura.
In più ogni tanto troverete le mie annotazioni, il mio punto di vista su ciò che mi circonda, ciò che coglie il mio sguardo sul mondo, come fosse un piccolo diario.
Il mio nome è Anna e vi do il benvenuto nel mio grande mondo!

Anna Crisci è nata a Firenze nel 1967, dove vive tuttora.
Autrice di commedie teatrali, scrive recensioni e
consigli di lettura sul sito Firenze Formato Famiglia e gestisce questo blog che è anche pagina Facebook dove tratta,
tra l'altro, di libri e spettacoli teatrali. Con il gruppo
ConsapevolMente si occupa di organizzare eventi per promuovere la figura femminile e la difesa della donna.
Nel 2017 ha partecipato con due
racconti all'antologia tutta al femminile “Squilibri”, edita
dalla Porto Seguro e ha pubblicato il suo primo romanzo "La lista di Clelia" anch'esso edito da Porto Seguro.



giovedì 27 ottobre 2016

"Sei come sei" di Melania G. Mazzucco - Edizioni Einaudi

Melania G. Mazzucco, scrittrice italiana classe 1966, autrice teatrale e radiofonica, ci racconta la storia di Eva, undici anni che sogna di fare la scrittrice.
Una bambina come tante, che dopo un violento litigio con i compagni di scuola fugge e sale su un treno per raggiungere Giose, suo padre, al quale è stato tolto l’affidamento della figlia dopo la morte del suo compagno Christian, l’altro padre di Eva.
La figlia è stata affidata allo zio, ma non perde la speranza di potersi riunire a suo padre, per questo fugge per raggiungerlo.
Attraverso il viaggio che Giose è costretto a fare dalla legge per riportarla a Milano dallo zio, i due avranno modo di raccontarsi ed Eva scoprirà molte cose su se stessa, i suoi due padri e anche la storia che l’ha fatta venire al mondo.

Il libro narra dell’amore di un padre e una figlia in cui tutti possono riconoscersi.
Un amore che a causa della diversità della loro situazione li pone entrambi di fronte al pregiudizio.

L’autrice ci spinge a riflettere su temi importanti quali l'omosessualità, la famiglia, ma anche sulla nota dolente della maternità surrogata.
Lo stesso Christian, prima di affrontare il viaggio che li renderà padri, riflette sulla questione dell’egoismo, ponendosi delle domande che il lettore si sente in dovere di porre anche a se stesso, ma le parole di Giose lasciano la porta aperta all'idea di accettare l'altro e il destino che ognuno ha davanti a se:

“… alcuni hanno il privilegio di essere amati, altri no. Alcuni sono educati alla libertà, altri sono schiavi della guerra, della dittatura, del fanatismo religioso… Chi nasce nero non è bianco, chi nasce malato non nasce sano, chi nasce povero, nasce svantaggiato… I figli sono individui… ciò che ci rende diversi dagli altri può salvarci…”




domenica 23 ottobre 2016

Un tuono


D’improvviso apro gli occhi, non son sicura che sia stato un tuono, sembrava più una forte esplosione. Si un esplosione che ha squarciato il silenzio notturno.
Fuori è buio e sono ancora distesa su un fianco, il destro. La mano sotto l'orecchio per tenerla al caldo perché l'inverno quest'anno è più forte del riscaldamento. Le gambe tirate su fino al cuore sotto la coperta.
C'è silenzio ora, un silenzio cupo. Strano che nessun'altro si sia svegliato, forse non era una esplosione, la gente si sarebbe spaventata, si sarebbe creata della confusione, si sentirebbero i suoni delle sirene. Certo, era davvero un tuono.
Un senso d'oppressione mi assale, il buio è ovunque persino dentro i miei occhi.  L'istinto mi spinge ad alzarmi, ad andare a vedere, ma l'angoscia che ho dentro mi frena, come a fermare l'attimo, ad evitare l'ineluttabile.
So che la fuori non c'è più nessuno, non c'è più niente. Spingo la coperta aiutandomi con il piede, mi alzo e senza nemmeno infilare le pantofole vado alla porta. Tolgo le mandate, la apro, ma non c'è nulla.
Io, la stanza e la porta siamo tutto ciò che rimane, sospese nel buio, nulla.
Torno verso il letto dopo aver chiuso la porta e rimesso le mandate. Sto qualche secondo seduta prima di stendermi ancora, chissà se anche io sono nulla. Osservo le mie mani, le giro, le poggio sulle ginocchia, mi guardo intorno, tutto sembra intatto.
Mi distendo sul fianco destro e riporto a me la coperta insieme alle gambe, la mano di nuovo sotto l'orecchio, con la sensazione che sia già successo.
Non ho altra scelta e cerco nuovamente il sonno. Succederà ancora che mi svegli, che ricominci tutto da capo, succede tutte le notti. Non ho ricordi di quel che accade dopo, so solo che mi sveglierò ancora, allo stesso modo.
Accade sempre, dalla notte dell'esplosione.

O me o te


Gli occhi chiusi, in piedi contro il muro, il fiato corto, devo ritrovare la calma.
Risvegliata dal sonno, ho udito dei rumori in casa, leggeri, quasi impercettibili.
Nel silenzio della mia camera sono rimasta in attesa, poi la certezza, in casa c’è qualcuno. Ralph non ha abbaiato e nemmeno percepisco la sua presenza.
Scivolata dal letto ho aperto il cassettone, ho infilato la mano sotto la biancheria, ho caricato i proiettili e ho tolto la sicura.
Ora sono dietro la porta e ascolto in silenzio i rumori sordi in casa mia. Il cuore va per conto suo e la mano che regge la pistola non trova pace.
Non pare possibile che stia succedendo qui, a me.
Mi allontano da dietro la porta, mi avvicino alla finestra all’angolo opposto, presto saranno qui.
Guardo il cellulare, è spento. Lo prendo in mano, ma appena si accenderà sentiranno la musica d’avvio e a quel punto non avrò il tempo di chiamare aiuto.
Sanno che ci sono e forse se ne andranno via convinti di non avermi svegliata e sarò grata loro per questo, ma non succederà. Stanno rovistando in tutta la casa, fra le mie cose, la mia vita è frugata dalle loro sudice mani, ma la camera da letto è un boccone ghiotto per i ladri. Sanno che vi sono nascoste le cose più preziose.
Metto il cellulare sotto il cuscino e lo accendo, pregando che la musica sia attutita, intanto controllo nuovamente che la sicura sia tolta.
Compongo il 112, ma subito sono messa in attesa. Dovrò parlare piano, speriamo capiscano. L’attesa continua, le linee sono intasate ed io sono qui con i mostri fuori dalla porta e senza alcuna difesa, tranne l’arma che ho in mano. Mai usata, a parte il corso di tiro fatto per gioco, dove il bersaglio è fatto di carta e dove il punteggio più alto ti fa vincere al massimo un caffè al bar.
Un fascio di luce passa sotto la porta, probabilmente una torcia, mentre sono ancora in attesa per parlare con un essere umano. Penso velocemente a chi potrei avvertire, ma ho il vuoto in testa, nessuno sarebbe così veloce da raggiungermi prima che quella porta si apra.
Non so chi mi troverò davanti, ma farà lo stesso. Uomini o donne, italiani o stranieri, non farà alcuna differenza. Una volta aperta quella porta, dovrò prendere una decisione comunque.
Penso ancora a Ralph, gli avranno fatto del male e per questo li odio e ancora li odio per essere entrati in casa mia, di notte, incuranti che io ci fossi. Li odio per quel che potrebbero farmi e per quello che mi stanno facendo provare. Li odio per avermi portato a questa scelta, terribile, ma nascosta dentro ogni essere umano, dettata dalla paura e dal bisogno di sopravvivere.
Poso il cellulare sul letto in attesa di una risposta che arriverà troppo tardi, per me e per loro. Sospiro profondamente, cerco di trovare fermezza.
Alzo il braccio sinistro, quello che tiene la pistola e con il destro lo sostengo, dritto, puntato verso la porta. Potrebbe entrare chiunque anche un ragazzino, ma sento che non avrò pietà, forse nemmeno per me stessa.
Il tremore è svanito, il cuore ha trovato un suo ritmo, respiro a bocca chiusa, provo uno strano senso di calma.
Non sospettano minimamente che io sia sveglia e forse era meglio se avessi continuato a dormire e mi avessero stordita con qualche sostanza.
Sono in vantaggio, non pensano certo di trovarmi qui, in piedi al centro della stanza, con una pistola puntata verso di loro.
Ecco la porta si apre, lentamente il fascio della torcia illumina la stanza e finalmente mi permette di vedere il nemico.
Il braccio è teso.
O me o te.

Il ruggito


Non è facile essere cattivi oggi giorno, niente affatto, ci vuole coraggio.
Esistono persone buone, sagge, umili, che piuttosto di ferire preferiscono subire in silenzio. Un logorroico silenzio.
Lucia era una di quelle persone. Aveva subito tante di quelle volte il giudizio assurdo e ingiustificato degli altri che quasi le sembrava di averci fatto l’abitudine, ma non era vero, non ci si fa l’abitudine.
Si può decidere di prendere la decisione più corretta, quella di evitare di rispondere ad arma tagliente con arma tagliente. Si può essere superiori e ignorare le cattiverie, ma non ci si fa l’abitudine.
Ogni volta che qualcuno a lei vicino, un conoscente, un'amica ipocrita, un parente, un collega di lavoro, la trattava con sprezzante superiorità, cercando il punto dove fa più male, lei ingoiava, sforzandosi di capire le difficoltà, il vissuto, la storia che aveva portato quella persona a dire, a comportarsi, a fare cose nei suoi confronti così incomprensibili, dal suo punto di vista.
Sarebbe bastata una risposta breve, ma decisa, che avrebbe fatto a fette l’avversario e l’avrebbe distrutto.
Era questo modo di pensare che la spingeva ad andare avanti. La convinzione che se solo avesse risposto come le suggeriva la sua voce interiore, la persona avanti a lei non avrebbe retto.
La sua voce interiore, la sua unica vera amica, provava e riprovava tutte le volte a tirarle fuori quel pensiero destinato a rimanere tale.
Era la pena per gli altri che l’aveva sempre fregata. Con le parole si può uccidere e Lucia lo sapeva. Le parole non tornano indietro, rimangono là dove le hai dette pronte a far sanguinare la ferita ogni volta che il ricordo gli cammina accanto.
Quella mattina però Lucia si era alzata diversa.
Il ricordo del sogno che aveva fatto durante la notte era ancora così vivido, tanto che sembrava lo potesse toccare, sul cuscino dal quale il suo viso sembrava non volersi allontanare. Era stato un sogno così strano e ingarbugliato, come lo sono sempre i sogni, che se avesse provato a raccontarlo non ci sarebbe riuscita.
La sensazione che però le aveva lasciato, era chiara, netta, quella no, non la poteva ignorare.
Si era svegliata cattiva, sinceramente cattiva. Non la infastidiva quella strana sensazione, anzi la faceva sorridere. Si sentiva insofferente, piacevolmente antipatica, superiore e arrogante. Si guardò soddisfatta allo specchio, immergendosi nell’oscurità del suo sguardo cercando la fonte di tutta quell'antipatia per il mondo e prese atto che c’era sempre stata.
Si truccò, si vestì, sorseggiò il caffè e infine fu pronta per uscire.
Non aspettò l’ascensore, non aveva proprio voglia di aspettare i comodi della coppia di anziani del primo piano che lo tenevano occupato alle ore più impensabili, nonostante non avessero niente da fare, come tutti i pensionati. Sorrise al vago ricordo che fino al giorno prima li aveva sempre giustificati.
Così scese i suoi tre piani a piedi e passò davanti alla porta dell’ascensore al pian terreno, proprio mentre ne uscivano i vecchietti del primo piano che si recavano sicuramente al supermercato a comprare tre mele, un etto di pane, due pomodori e due fette di petto di pollo, intralciando chi invece doveva andare a lavorare.
La portinaia, come al solito, era nella sua gabbia a osservare il traffico condominiale, senza perdersi un particolare di quel che le passava davanti agli occhi, con l’aria di chi giudica senza appello. Di sicuro ne aveva da ridire su ogni inquilino del palazzo.
«Buongiorno signora, è in ritardo stamani.».
Aveva fatto quell’affermazione squadrando Lucia dall’alto in basso e con il tono di chi guarda quel che fanno gli altri, ma mai abbastanza per sé. Lo faceva sempre, ma quello non era un giorno come tutti gli altri.
«E quindi?» Lucia non le toglieva gli occhi di dosso, la fissava con aria di sfida.
La portinaia era rimasta muta, la risposta di Lucia le era sembrata il ruggito di una leonessa, capace di scompigliarle la messa in piega. Se ne era tornata dentro la sua guardiola fingendosi occupata e con gli occhi bassi in cerca di coraggio. Quel genere di coraggio di cui sono carenti gli arroganti nel momento più opportuno.
Lucia si chiuse il portone alle spalle e lasciò che l’aria primaverile le rinfrescasse la mente.
Alla sua fermata l’autobus arrivava già con tutti i posti a sedere occupati quando, di prima mattina, mentre si va a lavorare, è così piacevole trovare un posticino vuoto per ammortizzare la sensazione negativa lasciata dalla sveglia. A lei non toccava quasi mai e dopo un paio di fermate, si trovava intrappolata in un frullato composto di studenti, impiegate e qualche anziano che non aveva niente da fare, se non occupare un posto sull’autobus in ora di punta.
La cosa che la sorprese piacevolmente fu che stavolta non si limitò a pensarlo e a sopportare.
Quando uno studentello con tre peli in faccia le spinse contro la schiena il suo zaino, lei non esitò un attimo.
«Senti un po’ bellino, lo zaino quando sali in autobus lo potresti anche togliere dalla schiena, o tutta la cultura che contiene non è sufficiente a renderti educato?».
«Quante storie! Pensa a farti gli affari tuoi brutta befana», fu la risposta che uscì dalla bocca di quel viso paonazzo che tradiva la vergogna di essere stato richiamato all’ordine da qualcuno che non era mamma e papà.
Gli amici sghignazzavano e lui si gongolava per la grande risposta che era riuscito a formulare.
«Tu sei un imbecille, probabilmente figlio di imbecilli e il mondo ti tratterà come tale, stai pure tranquillo. Ridi ora perché, appena ne avrà l’occasione, la vita lo farà con te»
Dette queste parole Lucia scese alla sua fermata, lasciandosi incurante alle spalle i commenti di quei ragazzini, ma tremendamente soddisfatta di non aver subito in silenzio.
Si avviò verso il suo ufficio, dove ogni giorno era trattata con ingiustificata superiorità da un capo spocchioso e da colleghi ruffiani e arroganti.
Entrò nel portone, salì in ascensore e, arrivata al quarto piano, aprì con le chiavi la porta di quella prigione quotidiana.
«Buongiorno a tutti» disse ad alta voce, chiudendo la porta con la spinta di un piede, mentre le sue labbra disegnavano un sorriso sarcastico sul viso illuminato da uno sguardo che, lì dentro, nessuno aveva avuto il piacere di incrociare.
Fino ad allora.

 

È teatro


«Trenta minuti in scena!»
Non sento, ma so che dietro le quinte hanno dato il via, i nostri orologi sono sincronizzati con quello della regista.
Mi trovo dietro l’ultima fila della platea, proprio sotto la regia, qui rimarrò fino alla fine di questa serata e di molte altre, come ho sempre fatto.
Ogni volta, quando dopo mesi si arriva finalmente al debutto, mi pongo sempre la solita domanda: “Chi me lo fa fare?”.
Proprio così. Cosa mi spinge a trasformare il mio tempo libero in lunghe serate di prove dopo una giornata di lavoro.
Cosa mi obbliga a soffrire di questa strana sensazione alla bocca dello stomaco. Una piccola massa rigida via via sale, si ferma tra cuore e gola, palpitando al tempo dettato dalla circolazione sanguigna, poi prende il sopravvento, decide il ritmo cardiaco, controlla l’uscita dell’aria dai polmoni e così il mio respiro.
Cos’è che mi spinge ogni volta a dimenticare la tensione e il panico e a ricominciare da capo.
Ferma, guardo il teatro ancora vuoto, chiudo gli occhi e cerco di ritrovare un respiro calmo e naturale.
La compagnia al completo ha dato da poco luogo al suo rituale magico sul palco. Segreto, sempre perfettamente uguale: stessi gesti, stesse parole. Un rito scaramantico, perché si sa gli artisti son superstiziosi.
Il sipario protegge, fino all’inizio dello spettacolo, la scenografia da occhi indiscreti, mentre gusto gli ultimi attimi con me stessa prima che venga fatto entrare il pubblico.
L’energia della prova generale pervade ancora la sala, quell’energia pronta ad esplodere, cullata dal silenzio, prima della deflagrazione.
Al di là delle porte, a pochi metri da me, la gente è in attesa, il brusio assordante. Loro sono tranquilli, si accomoderanno sulle loro poltroncine e si gusteranno lo spettacolo, liberi di apprezzarlo o meno, ma io no.
Io sarò dietro l’ultima fila e mi muoverò avanti e indietro, fermandomi nelle pause tra una battuta e l’altra e ricominciando a camminare, mentre il dialogo avrà luogo.
Avanti e indietro, ripetendo col solo movimento delle labbra ogni parola. Ancora avanti e indietro, sperando che il pubblico si diverta, sorrida e aspettando l’applauso che sancisce il suo assenso. Quell’applauso che ripaga di ogni sacrificio.
“Chi me lo fa fare” penso per l’ennesima volta respirando lentamente, mentendo a me stessa. Fingo di non sapere, ma conosco fin troppo bene quella forza d’attrazione che mi guida ogni volta verso la parola scritta, la storia da raccontare. Quella sensazione inebriante quando la larva si introduce nella mente attraverso i sensi innescando un ricordo, una sensazione, fino a quel tuffo al cuore al quale non rinuncerei mai: l’idea.
Dopodiché non son più io a guidare il gioco, è l’idea che fa di me ciò che vuole e cresce, si spande a macchia d’olio, si dirama, diventa incontenibile e non mi rimane che essere un semplice esecutore. Schiava fino alla parola “fine”.
Attrazione ipnotica, bisogno sanguigno, fisico, linfa che mi nutre. Non potrei farne a meno, mai.
«Venti minuti in scena!» guardo l’ora e mi sembra di sentirle quelle parole nei camerini.
Gli attori sono pronti, è come se li scorgessi attraverso il sipario che se ne sta morbidamente chiuso, mentre si scambiano gli ultimi sguardi di complicità, si controllano a vicenda, ripetono le battute più difficili, le entrate e le uscite. Sento il battito dei loro cuori da qui, il loro sangue pulsare adrenalina pura. La platea e i ruoli ci dividono, ma le sensazioni sono identiche. Loro sul palco a dar vita ai personaggi, io qui sul mio palco segreto, invisibile a tutti, mentre guardo i miei personaggi prendere vita.
Le porte si aprono e l’alta marea di volti sconosciuti si allunga, conquistando i posti migliori. Così la gente occupa il teatro, prima formando macchie qua e là, poi conquistandolo del tutto.
Non rimane che il mio singolo posto, dietro l’ultima fila. Da qui potrò saggiare direttamente le reazioni del pubblico, tastarne l’umore, captarne lo stato d’animo.
«Dieci minuti in scena!» il tempo non perdona e continua il suo inesorabile cammino verso l’ora decisa per l’inizio dello spettacolo. Ormai non posso tornare indietro, è fatta.
Anche gli ultimi posti vuoti sono stati occupati e ancora una volta mi chiedo “chi me lo fa fare di soffrire così” e sorrido fra me, mentre non posso fare a meno di chiedermi se coglierà la mia ironia questo pubblico che non è mai uguale ogni sera, se capirà il messaggio criptato dietro ai dialoghi, solo all’apparenza casuali. Chissà se sarò capace di essere all’altezza.
Avanti e indietro con le braccia incrociate al petto per difendermi da tutta questa emozione che è più forte di me e che non ne vuole sapere di lasciarmi stare.
Si spengono le luci di mezza sala prima, tutte le altre poi.
È buio, la musica trascina l’attenzione, un fascio di luce abbagliante ipnotizza lo sguardo del pubblico, filtrando dal sipario che lentamente si apre. È teatro.

 

Ascoltando, madame


Una sola lampadina, appesa a un filo, ciondolava giù dal soffitto.
Formava piccoli cerchi regolari raggiungendo, con la sua flebile luce, anche l’angolo più nascosto, ogni qualvolta la porta si apriva lasciando entrare il vento gelido che, nelle mattine d’inverno, spazzava le vie di Parigi.
La bottega era piccola e il vecchio Claude se ne stava seduto sul suo sgabello, nascosto dal cavalletto lanciando, di tanto in tanto, occhiate furtive e curiose verso la strada.
Il suo studio d’artista c’era sempre stato, o così almeno pareva nella memoria dei passanti e sembrava formare con Place du Théatre un’anima sola.
Quella mattina Sophie si era alzata presto, aveva raccolto i capelli in una coda di cavallo e aveva infilato la testa dentro ad un caldo cappello di lana color beige, come il morbido cappotto stretto in vita da una cintura che la avvolgeva fino alle ginocchia, mentre degli stivali scuri tenevano al caldo le gambe.
Era lontana da casa sua, abitava nel XX° Arrondissement a Belleville, ma aveva deciso di prendere il metrò per raggiungere il quartiere di Pigalle.
Salita sulla collina di Montmartre, voltandosi di tanto in tanto ad ammirare l’immensità della sua città, girò intorno alla Basilica del Sacré Coeur e si fermò davanti alla bottega che cercava, sebbene lungo il tragitto ne avrebbe potute trovare altre più dignitose.
L’aveva notata un giorno, non rammentava bene quando, ma si ricordava di essersi soffermata davanti alla vetrina attirata da tutti quei quadri dai colori vivaci e appena decise di acquistare un quadro per il suo salotto nuovo fu subito a quel piccolo laboratorio che la memoria la riportò.
Aprì la porta avvolta dal profumo dei croissant proveniente dalla vicina boulangerie e il vento gelido la spinse dentro smuovendo la lampadina, richiudendo la porta e facendo tintinnare i campanellini sistemati sopra di essa e che annunciavano le visite.
Prima che Claude distogliesse l’attenzione dalla tela che stava dipingendo, Sophie ebbe il tempo di guardarsi attorno chiedendosi che cosa mai vi avesse trovato di così straordinario quel giorno lontano passando di lì.
I quadri erano accatastati contro il muro ingiallito e scrostato, uno contro l’altro, senza protezione alcuna, come se una volta fatti fossero ammucchiati senza un ordine preciso, senz'altra cura. Le tele erano nude e la polvere vi aveva formato sopra una nebbia grigiastra che non ne impediva però la visione.
«Desidera madame?» la testa di Claude apparve a Sophie da dietro la tela con la barba lunga, folta e ingrigita da quella stessa nebbia che sembrava coprire tutto lì dentro.
Gli occhi grandi, segnati dagli anni vissuti, erano incorniciati da folte sopracciglia che s’increspavano ogni volta che il suo volto mimava un’emozione. Il naso era piccolo, reso quasi invisibile dalle narici larghe, con una macchia di color giallo sulla punta, frutto di una pennellata vivace.
«Cercavo un quadro per il mio salotto monsieur» rispose Sophie sporgendosi di lato per vedere meglio il suo interlocutore.
Claude si lasciò sfuggire un sorriso per l’ovvietà di quella risposta, non vendeva patate lui.
«Certamente. Madame vuole un quadro per il suo salotto ed io per magia dovrei tirar fuori ciò che cerca. Le sembrano cose da chiedersi?»
Sophie indietreggiò sentendosi in colpa, senza neppure sapere perché, mentre Claude si avvicinò a lei mostrando la sua corporatura esile dentro abiti troppo grandi per lui, macchiati di colore come la punta del suo naso.
Le prese la mano con la sua e la baciò sfiorandola appena con le labbra, aggiungendo con tono paziente: «Madame, un quadro non è una cosa da appendere al muro per rifinire una stanza. Un quadro è la stanza»
«Che intende dire?» Sophie lo guardava con aria stupita.
«Un quadro ha un’anima, madame, come lei e me. Rappresenta le emozioni di chi l’ha dipinto e di chi decide di acquistarlo.»
«Comprendo» ma Sophie aveva capito soltanto che quel vecchio pittore era sicuramente un tipo eccentrico e un po’ troppo fissato. Un quadro era solo una raffigurazione di un qualcosa, secondo lei, niente di più.
«Come si dovrebbe scegliere un quadro allora secondo lei?» chiese con aria ironica e indisponente.
Sophie era stata educata ad aver rispetto per gli anziani, ma quel vecchio presuntuoso la spazientiva. Non era sicuramente un pittore di grido e a giudicare dalle condizioni della sua bottega non vendeva un quadro da secoli.
Claude le voltò le spalle, tornò al suo sgabello e riprese a dipingere, senza più guardarla, aggiungendo semplicemente: «Ascoltando, madame. Ascoltando»
Ascoltando. Questa era bella, Sophie rise fra sé, non gli aveva chiesto un disco, aveva però capito che se voleva un quadro doveva far da sé. Cominciò a guardarli uno per volta, non intendeva darla vinta a quel vecchio. Sarebbe tornata a casa con il quadro adatto al suo salotto nuovo.
C’erano quadri d’ogni tipo a dir la verità. Raffiguravano nature morte, ritratti, vie cittadine, fiumi e vallate. C’erano un vecchio galeone in mezzo al mare in tempesta, una rappresentazione della mietitura, campi in fiore. Sophie ne aveva notato uno o due che potevano fare al caso suo, i colori usati si adattavano perfettamente alla tappezzeria del salotto.
A un tratto le parve di vedere muovere qualcosa vicino a lei, si girò pensando a un topo, d’altronde in quel posto sicuramente ce n’erano.
Nulla, nessun movimento. La sua attenzione però fu attirata da un quadro. Si avvicinò pian piano per osservarlo, era appeso al muro. Non era polveroso come gli altri ed era in bella vista, solo che non lo aveva notato prima.
Raffigurava una baia, dove il bosco sembrava arrivare fino all’acqua. Una donna coglieva della frutta da un albero riempiendo un cesto, mentre un bambino giocava ai suoi piedi.
Era una mattina fresca e la rugiada aveva formato una nebbiolina che mostrava a poco a poco, aprendolo al giorno, tutto il paesaggio.
Il mare in lontananza si apriva del tutto tra le scogliere lasciando intravedere la sua immensità, mentre le piccole e calme onde mattutine arrivavano silenziose a riva lasciandola poi senza alcun rimpianto.
Gli uccelli salutavano felici del nuovo giorno e la donna li accompagnava con una melodia simile al loro canto, osservando di tanto in tanto il bambino che rideva e seguiva divertito una fila di formiche già a lavoro.
Una brezza lieve smuoveva le foglie degli alberi e soffiava tra i capelli della donna che, di lì a poco, il sole estivo avrebbe riscaldato.
Dopo aver osservato a lungo quell’immagine Sophie si voltò a guardare gli altri quadri per qualche istante e poi di nuovo tornò a guardare quello, finché si accorse che il vecchio pittore le era accanto e la stava osservando.
«Ha trovato il quadro per il suo salotto madame?»
«Si monsieur» rispose Sophie senza distogliere lo sguardo da quel quadro e, senza più dire una parola, attese che il vecchio pittore lo staccasse dal muro e lo avvolgesse nella carta da pacchi assicurando il tutto con filo di spago.
Sophie pagò una cifra irrisoria quel quadro che le aveva dato un'emozione così grande, ma Claude non volle accettare di modificarne il prezzo sebbene ci avrebbe guadagnato.
Pochi minuti dopo la porta si chiuse, facendo disegnare i soliti cerchi alla lampadina appesa al soffitto e lasciando che Sophie fosse nuovamente accolta dalla strada.
Il vecchio Claude andò a togliere un quadro dalla pila che era accatastata contro il muro, ci soffiò sopra per mandar via la polvere che vi si era depositata e lo sistemò con cura al posto di quello appena venduto, osservando dalla giusta distanza la sua opera.
I suoi tratti decisi e pieni di colore avevano raffigurato le vie trafficate di Parigi, il profumo dei croissant, il vento di una fredda mattina d’autunno e una giovane donna con il cappotto beige che passeggiava felice con un quadro sotto il braccio.

 

giovedì 13 ottobre 2016

"Anime baltiche" di Jan Brokken - Edizioni Iperborea

Una scelta per programmare il mio recente viaggio nei paesi baltici che si è rivelata un'ottima lettura anche per chi non ha intenzione di partire.
 
L'autore racconta la storia travagliata di tre paesi, Estonia, Lettonia e Lituania che in passato sono stati costretti all'occupazione finché non è stata ritrovata l'indipendenza.
Luoghi di fascino, persone ospitali e un passato storico corposo ed educativo, purtroppo trascurato dai nostri programmi scolastici.
 
Offre anche un itinerario alternativo alla solita gita da tour operator e senza dubbio introduce alla conoscenza di paesi che ormai non hanno più niente da invidiare, ma anzi molto da insegnare a chi crede che il vicino di casa sia ancora uno sprovveduto individuo perso dietro la cortina di ferro.
 
 
 
 
 

giovedì 6 ottobre 2016

"Sofia si veste sempre di nero" di Paolo Cognetti - Edizioni Minimum Fax

Paolo Cognetti è nato a Milano nel 1978 e oltre a scrivere è anche autore di documentari, forse per questo è facile attraverso la sua scrittura leggere per immagini.
 
Con questo libro ha deciso di sezionare la storia che ci narra attraverso dei racconti che potrebbero vivere benissimo di vita propria e che pian piano ricostruiscono come un puzzle la fotografia di una famiglia dagli anni settanta ad oggi.
 
Sofia è una giovane donna con il sogno di diventare attrice. Porta con se il dolore di avere avuto una madre assente e sempre in lotta con la depressione, un padre diviso a metà tra il dovere e ciò che invece vorrebbe e la scelta di voler crescere da sola.
L'autore ci porta nella sua vita e ce la racconta con una scrittura chiara e piacevole lasciando a noi il compito di trarne le conclusioni.
 
Siamo un po' tutti Sofia, noi figli di quegli anni?
Quanto incidono le vite irrisolte dei genitori sulla visione del mondo ereditata poi dai figli e sull'importanza che questi alla fine sanno dare al loro futuro?
L'individuo ha davvero la facoltà di scegliere o trascina con se gli errori altrui?
 
Una storia che parla soprattutto di donne, raccontate dall'autore con grande e semplice verità, contrapponendo tra loro Rossana e Marta, madre e zia della protagonista e facendo intravedere in Sofia la possibilità della nascita di una donna nuova che porta con se le radici della sua storia, ma che è figlia del suo tempo.
Un libro quello di Cognetti adatto ad adulti e adolescenti perché nessuno smette mai di crescere e di cercare se stesso.